Dopo aver assistito ai fatti di ieri, non ho potuto fare a meno di ripensare a questo articolo che avevo scritto nel giugno 2012 per il giornalino parrocchiale…
L’ho riletto… e mi sono resa ulteriormente conto che nulla è cambiato a distanza di tempo… nulla…

(Foto:www.toursofpeace.com)


Si sente parlare molto spesso di carità. È un termine che si usa e del quale, a volte, si abusa. Spesso però, tendiamo ad associarlo al “fare la carità”, che non è proprio la stessa cosa. Pensiamo magari, che la carità sia fare l’elemosina e ce ne torniamo nelle nostre case soddisfatti, dopo esserci lavati la coscienza con una monetina. Basta così poco per andarcene a letto, la sera, da cristiani soddisfatti di noi stessi? O per guardarci nello specchio la mattina? Io non lo so se basta… non credo che basti. Se solo ci fermassimo a pensare al motivo che spinge queste persone ad affrontare l’inferno per raggiungere il nostro Paese in cerca di un futuro migliore… Viaggiano per chilometri interminabili di deserto, alcuni muoiono, altri vengono arrestati, subiscono violenze, soprusi, i più fortunati arrivano al mare e, se riescono ad imbarcarsi, affrontano onde, maltempo o caldo torrido, schiacciati come sardine su barconi o gommoni di fortuna. A volte arrivano, sbarcano e, magari, trovano chi ha per loro gesti  talmente “caritatevoli” da offrirgli un lavoro. Così si ritrovano a raccogliere angurie o arance e a ricevere una paga di dodici euro ogni venti ore di lavoro e a dormire in tende di fortuna piantate nei campi, giusto perché, sempre per pura carità, non per schiavitù, non facciano troppa strada per raggiungere il luogo di lavoro. In fondo non hanno mica bisogno di una casa, di un bagno, di un ambiente salubre dove poter mangiare, sono solo extracomunitari. Neri, figli di neri lontani da casa. Non sono i nostri figli. Ma hanno l’età dei nostri figli. Avete mai chiesto anche solo a uno di loro da dove viene? Come si chiama? O qual è la sua età? Io l’ho fatto. Spesso scopro che si tratta di ragazzi  giovanissimi, appena ventenni. Poi mi ritrovo inevitabilmente a pensare alle loro madri e alla forza nel lasciarli andare, alla loro angoscia nel non riuscire a sentirli per tanto tempo. Ed è a quel punto che vorrei avere una bacchetta magica e fare prodigi, ma mi scontro con la mia umanità. Poi rifletto, non mi scoraggio e mi dico che non devo pensare “in grande”. Se pensiamo al fenomeno dell’immigrazione infatti, finiamo col confrontarci con un problema troppo grande per noi semplici comuni mortali. Ma se ci “limitiamo” a guardare alla singola persona, ecco che possiamo vedere il problema come più abbordabile. Mamour veniva dal Senegal e, all’epoca, aveva vent’anni. Era in Italia da circa due e vendeva monili lungo la spiaggia. Con la mia famiglia gli abbiamo offerto di dividere insieme il pranzo, ma quello era periodo di Ramadan e non ha voluto mangiare nulla. Avrebbe aspettato  la sera per cenare. Io mi sto ancora chiedendo come facesse a resistere per tutto il giorno con la pancia vuota, sotto il sole cocente e tutta quella strada sotto i piedi. Io non potrei farcela. Tra un italiano un po’ stentato da parte sua e un francese altrettanto stentato da parte nostra, siamo riusciti a capire che desiderava della frutta. Gli abbiamo dato tutta quella che avevamo, lui l’ha messa con cura nel suo zaino e poi lo abbiamo guardato andar via, sorridente. Non abbiamo potuto fare a meno di pensare che quello era solo un ragazzo, poco più grande di nostro figlio. Forse, se ognuno di loro ricevesse anche solo un sorriso al giorno, o una parola d’incoraggiamento, un gesto di vera carità, rappresentato da un voler conoscere, capire, andare incontro veramente, invece del semplice  gesto frettoloso di mettere una monetina nel loro cappellino, magari si sentirebbe meno solo, più incoraggiato a non mollare e a sperare in un futuro migliore. Perché è questo il motivo per il quale vengono qua lasciando il loro mondo, la loro famiglia, le loro tradizioni. Vengono per trovare l’America in Europa. Poi incontrano gli europei che non li vogliono, i maltesi che li lasciano in balia delle onde, pur essendo, in un tratto di mare di proprio demanio, e noi italiani che non sappiamo come gestire migliaia di loro che finiscono col diventare, inevitabilmente, un problema. Forse noi cristiani dovremmo riscoprire l’idea di indignarci, ogni tanto. Dovremmo indignarci alla sola idea di sentire parlare ogni giorno di questa Europa unita, che scarica agli italiani un problema di tale entità che invece è di tutti e che minaccia di sparare agli immigrati che dovessero provare a varcare clandestinamente i confini del “loro” Paese. Bisognerebbe invece farsi carico insieme di problematiche così importanti per trovare una soluzione valida.  Le antiche comunità cristiane, le congregazioni, esistevano proprio a questo scopo. Dovremmo imparare dal passato e cercare di riscoprirlo e riportarlo in vita. Nelle congregazioni le persone si aiutavano a vicenda, oppure aiutavano gli altri. È affascinante scoprire come, magari senza tirare fuori una lira, anche perché all’epoca non credo ce ne fossero tante nelle tasche della povera gente, si riusciva ad aiutare l’altro con il proprio lavoro fisico, con la propria attenzione, condividendo un pranzo, il latte della capra, addirittura il latte materno! Si cresceva come un’unica grande famiglia, con i pro e i contro che questo comportava, ma, di certo, non ci si sentiva soli. Proprio come accade ancora oggi in Africa, dove un villaggio è una sola grande famiglia e dove i problemi e i figli di uno, sono i problemi e i figli di tutti, dove, se uno è in difficoltà, l’altro non si gira dall’altra parte limitandosi a dare consigli scontati e  comportandosi poi, come se tutte fosse normale, ma si prodiga per chiedere, aiutare, magari senza riuscirci, ma ci prova. La vera carità non è costituita dal donare soldi, ma dal dono di noi, dall’attenzione che possiamo dare all’altro e da quello a cui siamo disposti a sacrificare per lui. Può essere un semplice sorriso, l’ascolto, l’aiuto manuale, la preghiera, una parola d’incoraggiamento, l’interessamento vero e non curioso, una pacca sulla spalla, perché … È più facile il cammino se si è in due, se cadi l’altro rialza; se piangi, l’altro consola; se disperi, l’altro semina speranza; se brancoli nel buio, l’altro diventa luce! 

Ciazachi, 13 giugno 2012